L’approdo alla filosofia attraverso il bisogno di mettere per iscritto l’esperienza quotidiana accanto alla figlia affetta da una seria disabilità cognitiva; una concezione del self e della vita etica profondamente relazionale; il grande apporto del pensiero femminile alla filosofia e all’etica della cura; intervista a Eva Kittay.
Eva Feder Kittay ha offerto uno dei più sofisticati e innovativi sviluppi alla teoria di genere e alla cosiddetta "etica della cura”, arrivando a inaugurare un nuovo ambito di studi sul tema della disabilità e, più in particolare, sul rapporto tra etica e disabilità cognitiva. Docente presso la Stony Brook University di NewYork -ove nel dicembre del 2009 è stata nominata Distinguished Professor, Kittay ha partecipato il 3 febbraio scorso al Convegno "Ambiti e forme della discriminazione: approcci teorici, casi concreti e politiche pubbliche di contrasto” promosso a Bologna dal LABdi – Laboratorio su forme della discriminazione, istituzioni e azioni positive (www.labdi.it).
I Disability studies. Tu oggi sei certamente una delle esponenti principali dei disability studies, ma come sei approdata a questo ambito di studi, tramite la tua particolare esperienza di vita, legata a tua figlia, o anche attraverso un percorso di natura filosofica e teorica? E nell’ambito dei disability studies, un universo piuttosto articolato, a quali correnti ti senti più vicina?
Nei Disability Studies mi sono imbattuta casualmente. La mia intenzione era quella di mettere per iscritto gli insegnamenti che, giorno per giorno, traevo dalla vita con mia figlia e di sottolinearne le importanti implicazioni filosofiche. Ma quando iniziai a scrivere, scoprii lo straordinario lavoro che era stato svolto in questo campo di studi e ricerche. Una parte di questo lavoro mi aiutò a vedere in maniera diversa la mia vita con mia figlia, e un’altra parte fece di me una madre più sensibile alla condizione di una figlia disabile; per altri versi, però, sentivo che esso non rispecchiava la mia esperienza con una persona affetta da una seria disabilità cognitiva. I testi dei Disability Studies sono scritti da persone colpite esclusivamente da disabilità fisiche, oppure da persone che soffrono di qualche forma di disabilità cognitiva che tuttavia non ne compromette seriamente le funzioni intellettive.
Quasi per definizione, nessuna opera è stata scritta da autori affetti da disabilità paragonabili a quelle di mia figlia. Inoltre, la disabilità intellettiva (ossia quella che fino a poco tempo fa definivamo "ritardo mentale”) ha occupato a lungo il livello più basso nella gerarchia delle disabilità: è la disabilità alla quale coloro che soffrono di altri tipi di disabilità non vorrebbero mai essere associati. Questa mia osservazione potrebbe apparire troppo dura, ma quando ho iniziato a esplorare la letteratura dei Disability Studies ho riscontrato una scarsa consapevolezza del fatto che ciò che si dimostra appropriato per le persone con disabilità fisiche potrebbe rivelarsi inadeguato per le persone con disabilità cognitive. Inoltre, mi inquietava il fatto che alcuni dei valori abbracciati con maggior convinzione dalle persone più vicine all’esperienza della disabilità -valori quali l’indipendenza o l’autonomia, che mia figlia sarebbe incapace di conseguire- non rappresentavano altro che l’acritica trasposizione dei valori della società "abile” dominante. Guardando alla vita con mia figlia, e alla vita che cercavo di costruire per lei, sentivo il bisogno di contestare la concezione che assegna un particolare valore a cose come l’indipendenza. Al contrario: ciò che ho appreso dalla mia vita con mia figlia è proprio il significato e l’inevitabilità della dipendenza. Così, mentre intendevo sottolineare e celebrare i successi raggiunti dalla comunità delle persone disabili, sentivo anche il bisogno di mettere in discussione alcuni dei punti di vista maggiormente condivisi al suo interno.
La risposta alla tua domanda -se ho abbracciato questo campo di studi attraverso la mia particolare esperienza di vita o lungo un percorso di natura filosofica e teorica- è entrambe le cose. Ma il coraggio di scrivere di Sesha in un contesto filosofico, di parlare della sua disabilità intellettiva in un ambiente intellettuale, mi è stato dato dal lavoro che avevo svolto nell’ambito della filosofia femminista e, in particolare, di quella sua peculiare prospettiva di ricerca sviluppatasi come "etica della cura”.
Quanto alla domanda se io mi senta più vicina alla filosofia ovvero ai Disability Studies, io sarò sempre una filosofa: non per via della mia istruzione o professione, ma per temperamento. Io pensavo filosoficamente prima di prendere in mano il mio primo testo di filosofia. Tuttavia non sarò mai una filosofa ortodossa, interessata unicamente alle manifestazioni della ragione, ai testi canonici, alle usuali aree di ricerca. Le questioni che mi stanno realmente a cuore sono quelle che hanno a che fare con la nostra condizione di individui in carne e ossa: per esempio i temi della giustizia, così come ogni altro problema concreto che ci troviamo ad affrontare.
Quale è la tua formazione? I tuoi primi lavori erano dedicati alla metafora, che ruolo riveste questa categoria nel prosieguo della tua riflessione filosofica ed etico-politica?
Il mio primo docente di filosofia era un hegeliano. Ma nel corso dei miei studi postuniversitari scoprii che la mia autentica attitudine era per la filosofia analitica, non per quella continentale. Trovai particolarmente interessanti la filosofia del linguaggio e la filosofia della scienza, ma non disponevo di un’adeguata formazione scientifica per diventare filosofa della scienza. Tuttavia, era dal tempo dei miei studi universitari di antropologia che coltivavo un profondo interesse per i linguaggi simbolici, e i filosofi della scienza dedicavano estrema attenzione alla forma della metafora per via delle sue profonde affinità con la struttura dei modelli, ossia quei costrutti teorici che spesso si rivelano decisivi per lo sviluppo delle idee scientifiche. Gran parte del linguaggio scientifico sorge come metafora. E la metafora era uno degli aspetti del pensiero simbolico che più mi avevano affascinato nel corso dei miei studi universitari. E’ per tutte queste ragioni che mi sono dedicata allo studio della metafora. Mi piaceva lavorarci perché il funzionamento della metafora mette in luce un gran numero di caratteristiche del linguaggio e del pensiero.
Quanto alla questione se la metafora rivesta ancora un ruolo nella mia riflessione filosofico-politica, rispondo che sì, è possibile che la sua influenza metodologica continui a filtrare nel mio lavoro, ma non si tratta di un contributo diretto. L’unico rapporto tra la metafora e la mia attuale ricerca teorica è che la mia concezione di significato è profondamente relazionale. E tale è anche la mia concezione del self, della vita etica e della disabilità e abilità. Credo che pensare alle persone, ai significati e agli oggetti naturali come entità atomistiche e autoconsistenti sia sbagliato. E che il significato di una parola dipenda in parte dal significato delle parole con le quali essa si trova a comporre un enunciato, e in parte dal significato delle parole alle quali essa è associata all’interno di un determinato campo semantico. Io credo che le persone siano costituite in buona parte dalle relazioni che le legano ad altre persone e dai ruoli che esse svolgono in uno specifico campo sociale. E credo che le nostre capacità siano determinate meno da caratteristiche biologiche che si vorrebbero riconducibili all’influenza di singoli geni, e più dalle nostre numerose e complesse relazioni biologiche e sociali. L’altro elemento di continuità con la precedente fase del mio lavoro è la mia convinzione che il pensiero analogico non sia solo la chiave della nostra abilità nel costruire metafore, ma svolga anche una funzione fondamentale nelle particolari procedure attraverso le quali contraiamo reciproci impegni morali. Intendo dire che l’eguaglianza degli individui non ha nulla a che vedere con il fatto che tutti noi condividiamo talune caratteristiche proprie degli esseri umani (per esempio il pensiero razionale), ma è piuttosto il riflesso del fatto che ognuno di noi è "figlio di una madre”. Questo è un esempio di pensiero analogico. Quando veniamo a sapere che una persona che non conosciamo -e per la quale potrebbe non esser facile provare un immediato sentimento di simpatia- è in difficoltà, possiamo pensare: "Ma in passato qualcuno ha amato quella persona al punto di prendersi cura di lei: quella persona è letteralmente e metaforicamente ‘figlio di una madre’”. La sofferenza di quella persona diventa reale perché è la sofferenza degli altri, è la sofferenza delle persone cui essa è vicina. Noi possiamo comprendere il nostro legame con gli altri attraverso questa forma di pensiero analogico e relazionale.
Dallo studio della metafora sei poi passata ad una profonda riflessione sul femminismo, sull’etica femminista, sulle questioni di genere. Che cosa è per te il femminismo? E come lo si può intendere oggi, alla luce delle trasformazioni della società?
Ho abbracciato il femminismo fin dall’inizio della mia carriera accademica. Il primo corso che tenni dopo aver conseguito il dottorato fu "Filosofia e femminismo”. Allora c’erano almeno cinque testi in inglese tra i quali scegliere. Uno, naturalmente, era il capolavoro di Simone de Beauvoir Il secondo sesso. Oggi le opere filosofiche di studiose femministe sono così numerose che nessuno di noi potrebbe leggerle tutte.
Anzi, sarebbe difficile rimanere al passo anche con una sola delle sottocategorie del pensiero femminista, per esempio l’etica femminista. Per me il femminismo è semplicemente l’idea secondo la quale il mondo appartiene agli uomini e alle donne in egual misura. Significa anche che il mondo appartiene a tutti gli uomini e a tutte le donne in egual misura. Cosa precisamente significhi la realizzazione di tale idea, ossia cosa debba avvenire affinché noi possiamo considerarla pienamente realizzata, è l’oggetto del dibattito in corso, di studi e ricerche filosofiche che affrontano la questione della giustizia senza tralasciare alcuna prospettiva. Molte femministe hanno sostenuto che anche gli animali e l’ambiente dovrebbero essere inclusi in questo progetto teorico-politico. Sfortunatamente ci sono molte persone che, per via dei loro privilegi consolidati, non hanno alcuna intenzione di vedere il loro mondo appartenere in egual misura a uomini e donne. Molti uomini temono che la realizzazione di questa idea comporterebbe una diminuzione delle loro risorse economiche e del loro potere. Molte donne che già detengono potere e ricchezza non hanno alcun interesse per il benessere delle altre donne.
Io continuo a ritenere che il femminismo, a dispetto della retorica negativa che talvolta lo circonda, sia un movimento vitale e capace di spirito critico. Il miglioramento delle condizioni di vita delle donne si è rivelato molto spesso l’arma più efficace per strappare intere società alla povertà. Migliorare le condizioni di vita delle donne significa controllare la crescita della popolazione mondiale. Il miglioramento delle condizioni di vita delle donne è la chiave per raggiungere la pace. Poiché sono ancora le donne a dedicarsi al lavoro di cura -sono perlopiù le donne a occuparsi dei bambini, dei disabili, degli infermi e degli anziani- parlare del benessere delle donne significa parlare del benessere di tutti coloro che non sono pienamente indipendenti. Per questo io rimango una incrollabile femminista. La consapevolezza di quanto sia ancora lungo il cammino che ci separa dalla realizzazione del nostro ideale è una forza che alimenta il nostro attivismo. E anche i successi già ottenuti dalle donne regalano una speranza capace di contrapporsi agli scoraggianti ostacoli di cui quel cammino è ancora disseminato. Io credo che i fondamentalisti di tutto il mondo siano terrorizzati da questi successi. Le donne svolgono già un potente ruolo simbolico e una importante funzione attiva nelle vite degli uomini. Come disse De Beauvoir, le donne sono il ricettacolo delle paure, dei sogni, degli idoli degli uomini. Esse sono madri, sono lavoratrici, si dedicano all’attività di cura, soddisfano i desideri sessuali. Sono le metafore linguistiche e incarnate attraverso le quali gli uomini hanno mediato le loro relazioni reciproche e il loro rapporto con il mondo e con se stessi. Quando immaginano di perdere i vantaggi simbolici e materiali dei quali hanno fin qui goduto, gli uomini temono in realtà di smarrire l’àncora che li ha tenuti aggrappati al mondo. Noi possiamo solo sperare che nel mondo cresca invece il numero delle persone capaci di vedere quali benefici comporterebbe un simile mutamento.
Nelle tue opere spesso ricorrono riferimenti ad altre importanti pensatrici della costellazione femminista: Martha Nussbaum, Joan Tronto, Virginia Held, Iris Marion Young. Cosa condividi con queste autrici, a quale ti senti, eventualmente, più vicina, in cosa invece il tuo pensiero si discosta dal loro?
Sono legata da un profondo debito alle studiose da te citate, e a molte altre ancora, come Sara Ruddick, Susan Okin, Carol Gilligan, Alison Jaggar, Nancy Fraser, Diana Meyers, Patricia Williams, e potrei proseguire: queste donne hanno realizzato qualcosa di notevole. Insieme abbiamo aperto uno spazio di riflessione teorica e filosofica che prima non esisteva.
C’è dunque qualcosa di nuovo sotto il sole. Mentre le femministe sono sempre esistite, e le filosofe sono sempre esistite (sebbene il loro lavoro sia rimasto a lungo ignorato e solo recentemente sia stato portato alla luce), credo che sia corretto sostenere che questo è il primo periodo storico in cui un gruppo di studiose ha costituito un corpus teorico che è al tempo stesso profondamente filosofico e intensamente femminista.
Sono molto grata a Martha Nussbaum per aver fornito un contributo decisivo nel diffondere le tematiche della disabilità cognitiva all’interno della filosofia mainstream. Il suo pensiero è una preziosissima fonte di ispirazione. Non sempre mi trovo d’accordo con lei, ma ciascuno di noi avverte il desiderio e l’esigenza di confrontarsi con il suo lavoro. Per esempio, io dissento dalla sua idea di stilare una lista rigida e chiusa delle capacità che dovremmo ritenere caratteristiche dell’esistenza umana. Ho già avuto modo di sostenere che qualunque lista di questo genere finirà sempre per lasciar fuori qualche aspetto che ha a che fare con gli scopi stessi del genere umano. Inoltre ritengo che le sue concezioni tendano a essere più individualistiche delle mie, sebbene non sia affatto mia intenzione rigettare in pieno l’individualismo. Iris Marion Young, la cui morte prematura non ho ancora smesso di piangere, ha introdotto i valori e i temi dell’etica della cura nell’arena del pensiero politico. Io ho un debito molto particolare nei suoi confronti, in quanto fu lei a sollecitarmi ad applicare le mie teorie sulla dipendenza al dibattito sulla "dipendenza dal welfare”.
Joan Tronto e Virginia Held sono due figure che hanno svolto un ruolo importante nell’elaborazione di un’etica della cura. Potrei star qui a sottilizzare su cosa abbiano detto rispettivamente Young, Tronto o Held, ma in realtà ciò che vedo è che tutte noi siamo impegnate nell’identico progetto, e che il lavoro dell’una si combina e si completa perfettamente con quello delle altre.
Femminismo e questioni connesse alla disabilità ti hanno condotta ad elaborare una specifica visione dell’etica della cura: ce la vuoi descrivere nei suoi tratti fondamentali?
A mio parere gli elementi principali di un’etica della cura sono i seguenti: una concezione relazionale del self; la sensibilità per una forma di deliberazione morale che prenda sul serio il ruolo delle emozioni; la natura narrativa del nostro agire; l’influenza del contesto; l’enfasi su quelle relazioni che non prevedono simmetria di doveri e di obbligazioni perché uno dei soggetti è più vulnerabile, più dipendente dalla cura dell’altro per la propria sopravvivenza e il proprio sviluppo; il riconoscimento della nostra inevitabile dipendenza, della nostra vulnerabilità, della dimensione incarnata della nostra esistenza; l’attenzione per i fatti empirici e per il contesto entro il quale si verificano; il riconoscimento che la recisione di una relazione infligge in noi una delle ferite più profonde; la consapevolezza del fatto che "ognuno di noi è figlio di una madre”: perché gli esseri umani non sono in grado di sopravvivere, e tanto meno di svilupparsi, senza le cure dei propri simili, perché ognuno di noi deve la propria sopravvivenza a qualche altra persona che ci ha allevati facendo di una creatura completamente dipendente l’oggetto delle proprie cure e delle proprie premure.
Quando noi ci prendiamo cura l’uno dell’altro, rendiamo onore sia alla persona cui rivolgiamo le nostre attenzioni sia alla persona (o alle persone) che con le sue operose cure materne tenne quell’infante in vita.
La prima cosa che ho compreso quando ho iniziato a riflettere su queste questioni è che la critica della concezione atomistica del self sarebbe stata cruciale per conferire senso alla vita di mia figlia e alla vita che lei e io condividiamo. Il mio self non potrebbe mai essere interamente separato da quello di Sesha: non è solo lei a esser dipendente da me per le cure che le presto, sono anche io a esser dipendente da lei per il mio senso del self.
Questo però non significa che una relazione etica debba necessariamente essere simmetrica. Anzi, l’etica della cura trova la sua migliore applicazione proprio nelle relazioni segnate da una ineguaglianza di poteri e di capacità, cioè le relazioni di dipendenza. Vivendo con una persona dipendente come mia figlia, io ho dovuto ripetutamente apprendere alcune lezioni a proposito della dipendenza che sono ben note a ogni genitore, ma che ogni genitore dimentica via via che i figli crescono.
Io ho appreso che la dipendenza è un semplice fatto della vita, non qualcosa di cui aver paura. Inoltre ho appreso che la dipendenza che inevitabilmente accompagna le fasi dell’infanzia, della prima adolescenza e della più fragile vecchiaia, nonché le condizioni della malattia e della disabilità, rende a sua volta dipendenti coloro che prestano le proprie cure agli individui che attraversano quelle fasi e che vivono quelle condizioni. Alcuni dei nostri più importanti legami di attaccamento nascono da relazioni di dipendenza, e l’attaccamento fondato sulla dipendenza è uno dei doni più importanti che riceviamo dalle nostre relazioni di cura. Sesha mi ha anche dimostrato che ciò che ci rende umani non è il linguaggio o la razionalità, bensì una forma particolare di interazione, di relazione. E’ stata lei a insegnarmi che il riconoscimento di un individuo come persona -degna dei privilegi e delle tutele che sono propri di tale condizione- non deve dipendere da capacità contingenti come la razionalità, bensì dalla nostra intima costituzione relazionale.
Come si rapporta il tema della cura con quello della giustizia, e qual è il ruolo della cura oggi nelle cosiddette società globali? Possiamo pensare ad un’etica della cura globale?
Beh, la risposta a questa domanda richiederebbe le pagine di un volume, non le poche righe di un’intervista. Ma io ritengo che tanto il nostro concetto di cura quanto il nostro concetto di giustizia siano il prodotto di un mondo profondamente diviso per generi.
Gli uomini hanno svolto il loro ruolo nella sfera pubblica, governata in linea teorica da princìpi di giustizia. Le donne sono state relegate alla sfera privata, implicitamente regolata dall’etica della cura. Secondo questa concezione i criteri della giustizia godono di limitata applicabilità all’interno della famiglia, così come l’etica della cura deve rimanere circoscritta alle piccole questioni private. Modificheremo i nostri concetti di giustizia e di cura via via che edificheremo un mondo nel quale la divisione del lavoro non dipenderà dalla stratificazione di genere.
Il riconoscimento dell’importanza della comprensione empatica andrà di pari passo con l’affermazione di una più completa e articolata concezione di giustizia, che sappia promuovere e sostenere le istituzioni sociali e politiche orientate alle relazioni di cura. Allora l’etica della cura non sarà (ma del resto già non è) circoscritta alle questioni private, né sarà limitata alle relazioni con i nostri cari.
Se vuole avere un senso, un’etica della cura dev’essere globale. Le nostre vite sono così interconnesse su un piano globale che le teorie della giustizia incapaci di affrontare le questioni etiche su scala globale diverranno presto irrilevanti.
La consapevolezza della nostra interdipendenza ci convince della necessità di estendere le nostre pratiche di cura agli altri più distanti. Inoltre, la natura relazionale dell’etica della cura ci permette di assegnare una portata generale al valore che normalmente riconosciamo alle nostre relazioni. Comprendere che ognuno di noi è "figlio di una madre” significa anche percepire in ogni essere umano che soffre il figlio prezioso di una madre addolorata. La tragedia, colta nella sua vivida realtà, assume così i tratti della più pressante urgenza.
Un’etica femminista della cura deve occuparsi del lavoro di cura delle donne da una prospettiva globale.
Le famiglie delle nazioni più ricche utilizzano la forza-lavoro delle nazioni più povere per garantire assidue cure alle persone non indipendenti, e la conseguenza è che molto spesso le persone non indipendenti delle nazioni povere rimangono prive delle cure necessarie. Per le femministe queste questioni dovrebbero essere di particolare interesse, perché la necessità di procurarsi altrove il lavoro di cura è stata provocata, almeno parzialmente, dai successi femministi. Ci possiamo permettere i beni messi sul mercato dalle multinazionali solo perché essi vengono prodotti dal lavoro a basso costo delle donne del Terzo Mondo.
Queste donne potrebbero invece prendersi cura delle loro famiglie. Noi abbiamo bisogno di standard internazionali che assicurino che le multinazionali forniscano ai lavoratori un buon sistema di assistenza per i loro figli e ragionevoli possibilità di congedo per assistere i parenti malati o anziani. Dobbiamo progettare un sistema di cura a lungo termine e a livello globale: per coloro che si occupano di etica della cura c’è molto lavoro da fare.
La dipendenza e la vulnerabilità sono spesso cause di stereotipi e di discriminazioni. Come leggi questi fenomeni? Tu li hai indagati con particolare attenzione alle donne e alle persone con disabilità, ma immagino che la tua riflessione possa essere estesa anche ai migranti e, con riferimento specifico al contesto statunitense, ai neri…
In Occidente, ma non solo in Occidente, abbiamo sviluppato una concezione dell’essere umano quale creatura razionale, autonoma e indipendente, cui riconosciamo una dimensione corporea meramente contingente. La nostra natura incarnata e la vulnerabilità del nostro corpo, il fatto che nasciamo e moriamo, che abbiamo bisogno di anni di cure parentali prima di poter procedere con le nostre forze e che in una società complessa siamo profondamente dipendenti gli uni dagli altri, sono tutte verità innegabili, eppure nel nostro mondo industrializzato cerchiamo costantemente di eluderle.
Per usare il linguaggio della psicoanalisi, questi sono gli elementi abietti [dal latino ab+iacere: gettar via, respingere] della nostra esistenza "indipendente”. Assegniamo valore ai tratti della razionalità e della autonomia riconoscendoli agli esponenti delle classi superiori, mentre associamo i tratti abietti a coloro che percepiamo come inferiori socialmente o economicamente. E’ a loro, ai gruppi oggetto del nostro disprezzo, che affidiamo il gravoso incarico di prendersi cura della nostra dipendenza e vulnerabilità.
Accettare la nostra dimensione corporea solo in senso contingente, pretendere di esercitare un pieno controllo sui nostri corpi, e tuttavia esser pienamente consapevoli del fatto che i nostri corpi si spezzano, vanno incontro a lesioni, alla disabilità e infine alla morte: la conseguenza di questa tradizionale ambivalenza nel rapporto con il nostro corpo è stata che gli abili hanno tenuto i disabili lontani dalla nostra vista ("lontano dagli occhi, lontano dal cuore”).
Evitiamo di guardare in faccia la nostra dipendenza perché respingiamo l’idea di non esser noi a costruire il nostro benessere. Quindi gli uomini descrivono le donne come dipendenti; i bianchi americani descrissero i neri come dipendenti; i "rispettabili” americani della classe media deplorano la dipendenza delle donne dalla pubblica assistenza; e il sentimento anti-immigrati descrive i migranti "illegali”, i clandestini, come dipendenti dalla prodigalità americana. E se alcuni dei pregiudizi che colpiscono i disabili iniziano a essere scalfiti, è proprio perché la comunità dei disabili ha ottenuto qualche successo nel mostrare che la disabilità non getta l’individuo nello spazio dell’abietta dipendenza.
Ma il prezzo dell’indipendenza di una persona è la dipendenza di un’altra. L’indipendenza degli uomini è stata fondata sulla dipendenza delle donne. L’indipendenza di alcune donne ha spesso richiesto la dipendenza di donne più povere o di persone appartenenti a minoranze razziali.
Ben oltre il periodo della schiavitù, la madre afroamericana è stata vista come persona non indipendente eppure perfettamente idonea a prendersi cura dei bambini bianchi. La discriminazione ha tenuto molti neri in una condizione di dipendenza forzata. La madre che usufruisce delle prestazioni assistenziali, normalmente dipinta come afroamericana a dispetto dei dati statistici, viene tradizionalmente esecrata a causa della sua dipendenza, cioè la sua dipendenza dai sussidi statali.
E’ probabile che i crediti di imposta destinati alle famiglie della classe media o superiore siano ben più onerosi per i contribuenti, eppure in questi casi non si parla di dipendenza, così come non vengono considerate dipendenti le grandi imprese che godono di generosi finanziamenti statali. La discriminazione -che essa sia rivolta contro le donne, i neri, i migranti, i disabili- e la dipendenza percepita vanno di pari passo.
Come giudichi la condizione dei neri, oggi, negli Stati Uniti di Obama?
L’elezione di Obama è stata motivo di orgoglio per molti americani, me compresa. Ma nessuna persona che fosse cosciente di quanto solide e profonde siano le basi del razzismo in America ha creduto che l’elezione di Obama significasse la fine del razzismo e che i neri nel loro complesso avrebbero visto migliorare la loro condizione.
Per quanto ne so, l’amministrazione Obama non ha elaborato alcuna politica specificamente diretta agli afroamericani, sebbene alcune delle politiche che essa sta perseguendo potrebbero avere sugli afroamericani un impatto maggiormente positivo che su altri gruppi. La presidenza di Obama ha messo l’America bianca di fronte alla crescita della classe media e del ceto professionale neri, in quanto egli ha inserito nella sua amministrazione un certo numero di neri di particolare talento. E naturalmente Obama funziona da magnifico modello di ruolo per i giovani neri (molti dei quali, secondo alcuni studi, avrebbero potenziato la loro autostima in seguito al suo insediamento). Tuttavia non so che effetto avrà tutto questo. La presidenza di Obama produce anche reazioni opposte. Credo che la mobilitazione quasi parossistica dell’estrema destra sia in buona parte una risposta al fatto di avere un presidente nero.
Queste persone temono semplicemente che i bianchi perdano il loro dominio, e per questo sprofondano nel panico. Non saprei spiegare diversamente alcune reazioni alle politiche relativamente moderate che il presidente sta cercando di realizzare. E se Obama dovesse fallire, ciò potrebbe significare un nuovo passo indietro per l’America nera.
Penso però di poter già dire con certezza che, sebbene egli stia deludendo le aspettative della sinistra, la sua eredità sarà complessivamente positiva.
Come valuti, anche alla luce delle tue riflessioni sulle politiche e i servizi di welfare, la riforma sanitaria di Obama? Rappresenta davvero una svolta epocale come molti commentatori, anche in Europa, rilevano?
Beh, intanto è un grande risultato aver posto un freno ad alcune spietate politiche delle compagnie assicurative. Naturalmente, però, la riforma di Obama è qualcosa di ben diverso dall’introduzione di un sistema assistenziale che affidi l’erogazione delle prestazioni e dei sussidi a un singolo soggetto spazzando via la totalità delle compagnie assicurative e azzerando gli enormi profitti che esse normalmente mietono. Questo è un sistema che lascia ancora delle persone senza copertura sanitaria (per esempio, gli immigrati clandestini).
Si deve fare ancora molto per migliorare l’assistenza sanitaria negli Stati Uniti. Però questo è un miglioramento significativo. Ogni bambino avrà l’assistenza sanitaria, alcune delle peggiori politiche delle compagnie assicurative saranno represse, non si perderà la copertura assicurativa quando si cambierà lavoro, ecc.
Quel che ancora dobbiamo vedere è quanto efficace sarà questa copertura assicurativa. Chi non se la vedrà fornire dal datore di lavoro dovrà acquistarla. Dobbiamo ancora capire se ciò è realizzabile, se ci saranno delle resistenze.
La riforma sanitaria riceve critiche da ogni parte. Io credo che nel folle clima politico degli Stati Uniti, in una nazione che non accetta che i giudici della Corte Suprema provino "empatia” nello svolgimento delle loro funzioni, non si potesse fare di meglio. Ma di sicuro non abbiamo svoltato l’angolo ritrovandoci improvvisamente in un Paese convinto che ognuno dei suoi cittadini debba prendersi cura dell’altro. E, per quel che mi riguarda, è quello il luogo dove io vorrei che questo Paese si dirigesse.
I Disability studies. Tu oggi sei certamente una delle esponenti principali dei disability studies, ma come sei approdata a questo ambito di studi, tramite la tua particolare esperienza di vita, legata a tua figlia, o anche attraverso un percorso di natura filosofica e teorica? E nell’ambito dei disability studies, un universo piuttosto articolato, a quali correnti ti senti più vicina?
Nei Disability Studies mi sono imbattuta casualmente. La mia intenzione era quella di mettere per iscritto gli insegnamenti che, giorno per giorno, traevo dalla vita con mia figlia e di sottolinearne le importanti implicazioni filosofiche. Ma quando iniziai a scrivere, scoprii lo straordinario lavoro che era stato svolto in questo campo di studi e ricerche. Una parte di questo lavoro mi aiutò a vedere in maniera diversa la mia vita con mia figlia, e un’altra parte fece di me una madre più sensibile alla condizione di una figlia disabile; per altri versi, però, sentivo che esso non rispecchiava la mia esperienza con una persona affetta da una seria disabilità cognitiva. I testi dei Disability Studies sono scritti da persone colpite esclusivamente da disabilità fisiche, oppure da persone che soffrono di qualche forma di disabilità cognitiva che tuttavia non ne compromette seriamente le funzioni intellettive.
Quasi per definizione, nessuna opera è stata scritta da autori affetti da disabilità paragonabili a quelle di mia figlia. Inoltre, la disabilità intellettiva (ossia quella che fino a poco tempo fa definivamo "ritardo mentale”) ha occupato a lungo il livello più basso nella gerarchia delle disabilità: è la disabilità alla quale coloro che soffrono di altri tipi di disabilità non vorrebbero mai essere associati. Questa mia osservazione potrebbe apparire troppo dura, ma quando ho iniziato a esplorare la letteratura dei Disability Studies ho riscontrato una scarsa consapevolezza del fatto che ciò che si dimostra appropriato per le persone con disabilità fisiche potrebbe rivelarsi inadeguato per le persone con disabilità cognitive. Inoltre, mi inquietava il fatto che alcuni dei valori abbracciati con maggior convinzione dalle persone più vicine all’esperienza della disabilità -valori quali l’indipendenza o l’autonomia, che mia figlia sarebbe incapace di conseguire- non rappresentavano altro che l’acritica trasposizione dei valori della società "abile” dominante. Guardando alla vita con mia figlia, e alla vita che cercavo di costruire per lei, sentivo il bisogno di contestare la concezione che assegna un particolare valore a cose come l’indipendenza. Al contrario: ciò che ho appreso dalla mia vita con mia figlia è proprio il significato e l’inevitabilità della dipendenza. Così, mentre intendevo sottolineare e celebrare i successi raggiunti dalla comunità delle persone disabili, sentivo anche il bisogno di mettere in discussione alcuni dei punti di vista maggiormente condivisi al suo interno.
La risposta alla tua domanda -se ho abbracciato questo campo di studi attraverso la mia particolare esperienza di vita o lungo un percorso di natura filosofica e teorica- è entrambe le cose. Ma il coraggio di scrivere di Sesha in un contesto filosofico, di parlare della sua disabilità intellettiva in un ambiente intellettuale, mi è stato dato dal lavoro che avevo svolto nell’ambito della filosofia femminista e, in particolare, di quella sua peculiare prospettiva di ricerca sviluppatasi come "etica della cura”.
Quanto alla domanda se io mi senta più vicina alla filosofia ovvero ai Disability Studies, io sarò sempre una filosofa: non per via della mia istruzione o professione, ma per temperamento. Io pensavo filosoficamente prima di prendere in mano il mio primo testo di filosofia. Tuttavia non sarò mai una filosofa ortodossa, interessata unicamente alle manifestazioni della ragione, ai testi canonici, alle usuali aree di ricerca. Le questioni che mi stanno realmente a cuore sono quelle che hanno a che fare con la nostra condizione di individui in carne e ossa: per esempio i temi della giustizia, così come ogni altro problema concreto che ci troviamo ad affrontare.
Quale è la tua formazione? I tuoi primi lavori erano dedicati alla metafora, che ruolo riveste questa categoria nel prosieguo della tua riflessione filosofica ed etico-politica?
Il mio primo docente di filosofia era un hegeliano. Ma nel corso dei miei studi postuniversitari scoprii che la mia autentica attitudine era per la filosofia analitica, non per quella continentale. Trovai particolarmente interessanti la filosofia del linguaggio e la filosofia della scienza, ma non disponevo di un’adeguata formazione scientifica per diventare filosofa della scienza. Tuttavia, era dal tempo dei miei studi universitari di antropologia che coltivavo un profondo interesse per i linguaggi simbolici, e i filosofi della scienza dedicavano estrema attenzione alla forma della metafora per via delle sue profonde affinità con la struttura dei modelli, ossia quei costrutti teorici che spesso si rivelano decisivi per lo sviluppo delle idee scientifiche. Gran parte del linguaggio scientifico sorge come metafora. E la metafora era uno degli aspetti del pensiero simbolico che più mi avevano affascinato nel corso dei miei studi universitari. E’ per tutte queste ragioni che mi sono dedicata allo studio della metafora. Mi piaceva lavorarci perché il funzionamento della metafora mette in luce un gran numero di caratteristiche del linguaggio e del pensiero.
Quanto alla questione se la metafora rivesta ancora un ruolo nella mia riflessione filosofico-politica, rispondo che sì, è possibile che la sua influenza metodologica continui a filtrare nel mio lavoro, ma non si tratta di un contributo diretto. L’unico rapporto tra la metafora e la mia attuale ricerca teorica è che la mia concezione di significato è profondamente relazionale. E tale è anche la mia concezione del self, della vita etica e della disabilità e abilità. Credo che pensare alle persone, ai significati e agli oggetti naturali come entità atomistiche e autoconsistenti sia sbagliato. E che il significato di una parola dipenda in parte dal significato delle parole con le quali essa si trova a comporre un enunciato, e in parte dal significato delle parole alle quali essa è associata all’interno di un determinato campo semantico. Io credo che le persone siano costituite in buona parte dalle relazioni che le legano ad altre persone e dai ruoli che esse svolgono in uno specifico campo sociale. E credo che le nostre capacità siano determinate meno da caratteristiche biologiche che si vorrebbero riconducibili all’influenza di singoli geni, e più dalle nostre numerose e complesse relazioni biologiche e sociali. L’altro elemento di continuità con la precedente fase del mio lavoro è la mia convinzione che il pensiero analogico non sia solo la chiave della nostra abilità nel costruire metafore, ma svolga anche una funzione fondamentale nelle particolari procedure attraverso le quali contraiamo reciproci impegni morali. Intendo dire che l’eguaglianza degli individui non ha nulla a che vedere con il fatto che tutti noi condividiamo talune caratteristiche proprie degli esseri umani (per esempio il pensiero razionale), ma è piuttosto il riflesso del fatto che ognuno di noi è "figlio di una madre”. Questo è un esempio di pensiero analogico. Quando veniamo a sapere che una persona che non conosciamo -e per la quale potrebbe non esser facile provare un immediato sentimento di simpatia- è in difficoltà, possiamo pensare: "Ma in passato qualcuno ha amato quella persona al punto di prendersi cura di lei: quella persona è letteralmente e metaforicamente ‘figlio di una madre’”. La sofferenza di quella persona diventa reale perché è la sofferenza degli altri, è la sofferenza delle persone cui essa è vicina. Noi possiamo comprendere il nostro legame con gli altri attraverso questa forma di pensiero analogico e relazionale.
Dallo studio della metafora sei poi passata ad una profonda riflessione sul femminismo, sull’etica femminista, sulle questioni di genere. Che cosa è per te il femminismo? E come lo si può intendere oggi, alla luce delle trasformazioni della società?
Ho abbracciato il femminismo fin dall’inizio della mia carriera accademica. Il primo corso che tenni dopo aver conseguito il dottorato fu "Filosofia e femminismo”. Allora c’erano almeno cinque testi in inglese tra i quali scegliere. Uno, naturalmente, era il capolavoro di Simone de Beauvoir Il secondo sesso. Oggi le opere filosofiche di studiose femministe sono così numerose che nessuno di noi potrebbe leggerle tutte.
Anzi, sarebbe difficile rimanere al passo anche con una sola delle sottocategorie del pensiero femminista, per esempio l’etica femminista. Per me il femminismo è semplicemente l’idea secondo la quale il mondo appartiene agli uomini e alle donne in egual misura. Significa anche che il mondo appartiene a tutti gli uomini e a tutte le donne in egual misura. Cosa precisamente significhi la realizzazione di tale idea, ossia cosa debba avvenire affinché noi possiamo considerarla pienamente realizzata, è l’oggetto del dibattito in corso, di studi e ricerche filosofiche che affrontano la questione della giustizia senza tralasciare alcuna prospettiva. Molte femministe hanno sostenuto che anche gli animali e l’ambiente dovrebbero essere inclusi in questo progetto teorico-politico. Sfortunatamente ci sono molte persone che, per via dei loro privilegi consolidati, non hanno alcuna intenzione di vedere il loro mondo appartenere in egual misura a uomini e donne. Molti uomini temono che la realizzazione di questa idea comporterebbe una diminuzione delle loro risorse economiche e del loro potere. Molte donne che già detengono potere e ricchezza non hanno alcun interesse per il benessere delle altre donne.
Io continuo a ritenere che il femminismo, a dispetto della retorica negativa che talvolta lo circonda, sia un movimento vitale e capace di spirito critico. Il miglioramento delle condizioni di vita delle donne si è rivelato molto spesso l’arma più efficace per strappare intere società alla povertà. Migliorare le condizioni di vita delle donne significa controllare la crescita della popolazione mondiale. Il miglioramento delle condizioni di vita delle donne è la chiave per raggiungere la pace. Poiché sono ancora le donne a dedicarsi al lavoro di cura -sono perlopiù le donne a occuparsi dei bambini, dei disabili, degli infermi e degli anziani- parlare del benessere delle donne significa parlare del benessere di tutti coloro che non sono pienamente indipendenti. Per questo io rimango una incrollabile femminista. La consapevolezza di quanto sia ancora lungo il cammino che ci separa dalla realizzazione del nostro ideale è una forza che alimenta il nostro attivismo. E anche i successi già ottenuti dalle donne regalano una speranza capace di contrapporsi agli scoraggianti ostacoli di cui quel cammino è ancora disseminato. Io credo che i fondamentalisti di tutto il mondo siano terrorizzati da questi successi. Le donne svolgono già un potente ruolo simbolico e una importante funzione attiva nelle vite degli uomini. Come disse De Beauvoir, le donne sono il ricettacolo delle paure, dei sogni, degli idoli degli uomini. Esse sono madri, sono lavoratrici, si dedicano all’attività di cura, soddisfano i desideri sessuali. Sono le metafore linguistiche e incarnate attraverso le quali gli uomini hanno mediato le loro relazioni reciproche e il loro rapporto con il mondo e con se stessi. Quando immaginano di perdere i vantaggi simbolici e materiali dei quali hanno fin qui goduto, gli uomini temono in realtà di smarrire l’àncora che li ha tenuti aggrappati al mondo. Noi possiamo solo sperare che nel mondo cresca invece il numero delle persone capaci di vedere quali benefici comporterebbe un simile mutamento.
Nelle tue opere spesso ricorrono riferimenti ad altre importanti pensatrici della costellazione femminista: Martha Nussbaum, Joan Tronto, Virginia Held, Iris Marion Young. Cosa condividi con queste autrici, a quale ti senti, eventualmente, più vicina, in cosa invece il tuo pensiero si discosta dal loro?
Sono legata da un profondo debito alle studiose da te citate, e a molte altre ancora, come Sara Ruddick, Susan Okin, Carol Gilligan, Alison Jaggar, Nancy Fraser, Diana Meyers, Patricia Williams, e potrei proseguire: queste donne hanno realizzato qualcosa di notevole. Insieme abbiamo aperto uno spazio di riflessione teorica e filosofica che prima non esisteva.
C’è dunque qualcosa di nuovo sotto il sole. Mentre le femministe sono sempre esistite, e le filosofe sono sempre esistite (sebbene il loro lavoro sia rimasto a lungo ignorato e solo recentemente sia stato portato alla luce), credo che sia corretto sostenere che questo è il primo periodo storico in cui un gruppo di studiose ha costituito un corpus teorico che è al tempo stesso profondamente filosofico e intensamente femminista.
Sono molto grata a Martha Nussbaum per aver fornito un contributo decisivo nel diffondere le tematiche della disabilità cognitiva all’interno della filosofia mainstream. Il suo pensiero è una preziosissima fonte di ispirazione. Non sempre mi trovo d’accordo con lei, ma ciascuno di noi avverte il desiderio e l’esigenza di confrontarsi con il suo lavoro. Per esempio, io dissento dalla sua idea di stilare una lista rigida e chiusa delle capacità che dovremmo ritenere caratteristiche dell’esistenza umana. Ho già avuto modo di sostenere che qualunque lista di questo genere finirà sempre per lasciar fuori qualche aspetto che ha a che fare con gli scopi stessi del genere umano. Inoltre ritengo che le sue concezioni tendano a essere più individualistiche delle mie, sebbene non sia affatto mia intenzione rigettare in pieno l’individualismo. Iris Marion Young, la cui morte prematura non ho ancora smesso di piangere, ha introdotto i valori e i temi dell’etica della cura nell’arena del pensiero politico. Io ho un debito molto particolare nei suoi confronti, in quanto fu lei a sollecitarmi ad applicare le mie teorie sulla dipendenza al dibattito sulla "dipendenza dal welfare”.
Joan Tronto e Virginia Held sono due figure che hanno svolto un ruolo importante nell’elaborazione di un’etica della cura. Potrei star qui a sottilizzare su cosa abbiano detto rispettivamente Young, Tronto o Held, ma in realtà ciò che vedo è che tutte noi siamo impegnate nell’identico progetto, e che il lavoro dell’una si combina e si completa perfettamente con quello delle altre.
Femminismo e questioni connesse alla disabilità ti hanno condotta ad elaborare una specifica visione dell’etica della cura: ce la vuoi descrivere nei suoi tratti fondamentali?
A mio parere gli elementi principali di un’etica della cura sono i seguenti: una concezione relazionale del self; la sensibilità per una forma di deliberazione morale che prenda sul serio il ruolo delle emozioni; la natura narrativa del nostro agire; l’influenza del contesto; l’enfasi su quelle relazioni che non prevedono simmetria di doveri e di obbligazioni perché uno dei soggetti è più vulnerabile, più dipendente dalla cura dell’altro per la propria sopravvivenza e il proprio sviluppo; il riconoscimento della nostra inevitabile dipendenza, della nostra vulnerabilità, della dimensione incarnata della nostra esistenza; l’attenzione per i fatti empirici e per il contesto entro il quale si verificano; il riconoscimento che la recisione di una relazione infligge in noi una delle ferite più profonde; la consapevolezza del fatto che "ognuno di noi è figlio di una madre”: perché gli esseri umani non sono in grado di sopravvivere, e tanto meno di svilupparsi, senza le cure dei propri simili, perché ognuno di noi deve la propria sopravvivenza a qualche altra persona che ci ha allevati facendo di una creatura completamente dipendente l’oggetto delle proprie cure e delle proprie premure.
Quando noi ci prendiamo cura l’uno dell’altro, rendiamo onore sia alla persona cui rivolgiamo le nostre attenzioni sia alla persona (o alle persone) che con le sue operose cure materne tenne quell’infante in vita.
La prima cosa che ho compreso quando ho iniziato a riflettere su queste questioni è che la critica della concezione atomistica del self sarebbe stata cruciale per conferire senso alla vita di mia figlia e alla vita che lei e io condividiamo. Il mio self non potrebbe mai essere interamente separato da quello di Sesha: non è solo lei a esser dipendente da me per le cure che le presto, sono anche io a esser dipendente da lei per il mio senso del self.
Questo però non significa che una relazione etica debba necessariamente essere simmetrica. Anzi, l’etica della cura trova la sua migliore applicazione proprio nelle relazioni segnate da una ineguaglianza di poteri e di capacità, cioè le relazioni di dipendenza. Vivendo con una persona dipendente come mia figlia, io ho dovuto ripetutamente apprendere alcune lezioni a proposito della dipendenza che sono ben note a ogni genitore, ma che ogni genitore dimentica via via che i figli crescono.
Io ho appreso che la dipendenza è un semplice fatto della vita, non qualcosa di cui aver paura. Inoltre ho appreso che la dipendenza che inevitabilmente accompagna le fasi dell’infanzia, della prima adolescenza e della più fragile vecchiaia, nonché le condizioni della malattia e della disabilità, rende a sua volta dipendenti coloro che prestano le proprie cure agli individui che attraversano quelle fasi e che vivono quelle condizioni. Alcuni dei nostri più importanti legami di attaccamento nascono da relazioni di dipendenza, e l’attaccamento fondato sulla dipendenza è uno dei doni più importanti che riceviamo dalle nostre relazioni di cura. Sesha mi ha anche dimostrato che ciò che ci rende umani non è il linguaggio o la razionalità, bensì una forma particolare di interazione, di relazione. E’ stata lei a insegnarmi che il riconoscimento di un individuo come persona -degna dei privilegi e delle tutele che sono propri di tale condizione- non deve dipendere da capacità contingenti come la razionalità, bensì dalla nostra intima costituzione relazionale.
Come si rapporta il tema della cura con quello della giustizia, e qual è il ruolo della cura oggi nelle cosiddette società globali? Possiamo pensare ad un’etica della cura globale?
Beh, la risposta a questa domanda richiederebbe le pagine di un volume, non le poche righe di un’intervista. Ma io ritengo che tanto il nostro concetto di cura quanto il nostro concetto di giustizia siano il prodotto di un mondo profondamente diviso per generi.
Gli uomini hanno svolto il loro ruolo nella sfera pubblica, governata in linea teorica da princìpi di giustizia. Le donne sono state relegate alla sfera privata, implicitamente regolata dall’etica della cura. Secondo questa concezione i criteri della giustizia godono di limitata applicabilità all’interno della famiglia, così come l’etica della cura deve rimanere circoscritta alle piccole questioni private. Modificheremo i nostri concetti di giustizia e di cura via via che edificheremo un mondo nel quale la divisione del lavoro non dipenderà dalla stratificazione di genere.
Il riconoscimento dell’importanza della comprensione empatica andrà di pari passo con l’affermazione di una più completa e articolata concezione di giustizia, che sappia promuovere e sostenere le istituzioni sociali e politiche orientate alle relazioni di cura. Allora l’etica della cura non sarà (ma del resto già non è) circoscritta alle questioni private, né sarà limitata alle relazioni con i nostri cari.
Se vuole avere un senso, un’etica della cura dev’essere globale. Le nostre vite sono così interconnesse su un piano globale che le teorie della giustizia incapaci di affrontare le questioni etiche su scala globale diverranno presto irrilevanti.
La consapevolezza della nostra interdipendenza ci convince della necessità di estendere le nostre pratiche di cura agli altri più distanti. Inoltre, la natura relazionale dell’etica della cura ci permette di assegnare una portata generale al valore che normalmente riconosciamo alle nostre relazioni. Comprendere che ognuno di noi è "figlio di una madre” significa anche percepire in ogni essere umano che soffre il figlio prezioso di una madre addolorata. La tragedia, colta nella sua vivida realtà, assume così i tratti della più pressante urgenza.
Un’etica femminista della cura deve occuparsi del lavoro di cura delle donne da una prospettiva globale.
Le famiglie delle nazioni più ricche utilizzano la forza-lavoro delle nazioni più povere per garantire assidue cure alle persone non indipendenti, e la conseguenza è che molto spesso le persone non indipendenti delle nazioni povere rimangono prive delle cure necessarie. Per le femministe queste questioni dovrebbero essere di particolare interesse, perché la necessità di procurarsi altrove il lavoro di cura è stata provocata, almeno parzialmente, dai successi femministi. Ci possiamo permettere i beni messi sul mercato dalle multinazionali solo perché essi vengono prodotti dal lavoro a basso costo delle donne del Terzo Mondo.
Queste donne potrebbero invece prendersi cura delle loro famiglie. Noi abbiamo bisogno di standard internazionali che assicurino che le multinazionali forniscano ai lavoratori un buon sistema di assistenza per i loro figli e ragionevoli possibilità di congedo per assistere i parenti malati o anziani. Dobbiamo progettare un sistema di cura a lungo termine e a livello globale: per coloro che si occupano di etica della cura c’è molto lavoro da fare.
La dipendenza e la vulnerabilità sono spesso cause di stereotipi e di discriminazioni. Come leggi questi fenomeni? Tu li hai indagati con particolare attenzione alle donne e alle persone con disabilità, ma immagino che la tua riflessione possa essere estesa anche ai migranti e, con riferimento specifico al contesto statunitense, ai neri…
In Occidente, ma non solo in Occidente, abbiamo sviluppato una concezione dell’essere umano quale creatura razionale, autonoma e indipendente, cui riconosciamo una dimensione corporea meramente contingente. La nostra natura incarnata e la vulnerabilità del nostro corpo, il fatto che nasciamo e moriamo, che abbiamo bisogno di anni di cure parentali prima di poter procedere con le nostre forze e che in una società complessa siamo profondamente dipendenti gli uni dagli altri, sono tutte verità innegabili, eppure nel nostro mondo industrializzato cerchiamo costantemente di eluderle.
Per usare il linguaggio della psicoanalisi, questi sono gli elementi abietti [dal latino ab+iacere: gettar via, respingere] della nostra esistenza "indipendente”. Assegniamo valore ai tratti della razionalità e della autonomia riconoscendoli agli esponenti delle classi superiori, mentre associamo i tratti abietti a coloro che percepiamo come inferiori socialmente o economicamente. E’ a loro, ai gruppi oggetto del nostro disprezzo, che affidiamo il gravoso incarico di prendersi cura della nostra dipendenza e vulnerabilità.
Accettare la nostra dimensione corporea solo in senso contingente, pretendere di esercitare un pieno controllo sui nostri corpi, e tuttavia esser pienamente consapevoli del fatto che i nostri corpi si spezzano, vanno incontro a lesioni, alla disabilità e infine alla morte: la conseguenza di questa tradizionale ambivalenza nel rapporto con il nostro corpo è stata che gli abili hanno tenuto i disabili lontani dalla nostra vista ("lontano dagli occhi, lontano dal cuore”).
Evitiamo di guardare in faccia la nostra dipendenza perché respingiamo l’idea di non esser noi a costruire il nostro benessere. Quindi gli uomini descrivono le donne come dipendenti; i bianchi americani descrissero i neri come dipendenti; i "rispettabili” americani della classe media deplorano la dipendenza delle donne dalla pubblica assistenza; e il sentimento anti-immigrati descrive i migranti "illegali”, i clandestini, come dipendenti dalla prodigalità americana. E se alcuni dei pregiudizi che colpiscono i disabili iniziano a essere scalfiti, è proprio perché la comunità dei disabili ha ottenuto qualche successo nel mostrare che la disabilità non getta l’individuo nello spazio dell’abietta dipendenza.
Ma il prezzo dell’indipendenza di una persona è la dipendenza di un’altra. L’indipendenza degli uomini è stata fondata sulla dipendenza delle donne. L’indipendenza di alcune donne ha spesso richiesto la dipendenza di donne più povere o di persone appartenenti a minoranze razziali.
Ben oltre il periodo della schiavitù, la madre afroamericana è stata vista come persona non indipendente eppure perfettamente idonea a prendersi cura dei bambini bianchi. La discriminazione ha tenuto molti neri in una condizione di dipendenza forzata. La madre che usufruisce delle prestazioni assistenziali, normalmente dipinta come afroamericana a dispetto dei dati statistici, viene tradizionalmente esecrata a causa della sua dipendenza, cioè la sua dipendenza dai sussidi statali.
E’ probabile che i crediti di imposta destinati alle famiglie della classe media o superiore siano ben più onerosi per i contribuenti, eppure in questi casi non si parla di dipendenza, così come non vengono considerate dipendenti le grandi imprese che godono di generosi finanziamenti statali. La discriminazione -che essa sia rivolta contro le donne, i neri, i migranti, i disabili- e la dipendenza percepita vanno di pari passo.
Come giudichi la condizione dei neri, oggi, negli Stati Uniti di Obama?
L’elezione di Obama è stata motivo di orgoglio per molti americani, me compresa. Ma nessuna persona che fosse cosciente di quanto solide e profonde siano le basi del razzismo in America ha creduto che l’elezione di Obama significasse la fine del razzismo e che i neri nel loro complesso avrebbero visto migliorare la loro condizione.
Per quanto ne so, l’amministrazione Obama non ha elaborato alcuna politica specificamente diretta agli afroamericani, sebbene alcune delle politiche che essa sta perseguendo potrebbero avere sugli afroamericani un impatto maggiormente positivo che su altri gruppi. La presidenza di Obama ha messo l’America bianca di fronte alla crescita della classe media e del ceto professionale neri, in quanto egli ha inserito nella sua amministrazione un certo numero di neri di particolare talento. E naturalmente Obama funziona da magnifico modello di ruolo per i giovani neri (molti dei quali, secondo alcuni studi, avrebbero potenziato la loro autostima in seguito al suo insediamento). Tuttavia non so che effetto avrà tutto questo. La presidenza di Obama produce anche reazioni opposte. Credo che la mobilitazione quasi parossistica dell’estrema destra sia in buona parte una risposta al fatto di avere un presidente nero.
Queste persone temono semplicemente che i bianchi perdano il loro dominio, e per questo sprofondano nel panico. Non saprei spiegare diversamente alcune reazioni alle politiche relativamente moderate che il presidente sta cercando di realizzare. E se Obama dovesse fallire, ciò potrebbe significare un nuovo passo indietro per l’America nera.
Penso però di poter già dire con certezza che, sebbene egli stia deludendo le aspettative della sinistra, la sua eredità sarà complessivamente positiva.
Come valuti, anche alla luce delle tue riflessioni sulle politiche e i servizi di welfare, la riforma sanitaria di Obama? Rappresenta davvero una svolta epocale come molti commentatori, anche in Europa, rilevano?
Beh, intanto è un grande risultato aver posto un freno ad alcune spietate politiche delle compagnie assicurative. Naturalmente, però, la riforma di Obama è qualcosa di ben diverso dall’introduzione di un sistema assistenziale che affidi l’erogazione delle prestazioni e dei sussidi a un singolo soggetto spazzando via la totalità delle compagnie assicurative e azzerando gli enormi profitti che esse normalmente mietono. Questo è un sistema che lascia ancora delle persone senza copertura sanitaria (per esempio, gli immigrati clandestini).
Si deve fare ancora molto per migliorare l’assistenza sanitaria negli Stati Uniti. Però questo è un miglioramento significativo. Ogni bambino avrà l’assistenza sanitaria, alcune delle peggiori politiche delle compagnie assicurative saranno represse, non si perderà la copertura assicurativa quando si cambierà lavoro, ecc.
Quel che ancora dobbiamo vedere è quanto efficace sarà questa copertura assicurativa. Chi non se la vedrà fornire dal datore di lavoro dovrà acquistarla. Dobbiamo ancora capire se ciò è realizzabile, se ci saranno delle resistenze.
La riforma sanitaria riceve critiche da ogni parte. Io credo che nel folle clima politico degli Stati Uniti, in una nazione che non accetta che i giudici della Corte Suprema provino "empatia” nello svolgimento delle loro funzioni, non si potesse fare di meglio. Ma di sicuro non abbiamo svoltato l’angolo ritrovandoci improvvisamente in un Paese convinto che ognuno dei suoi cittadini debba prendersi cura dell’altro. E, per quel che mi riguarda, è quello il luogo dove io vorrei che questo Paese si dirigesse.