Chiamiamo le cose per nome. Dal sito Combonifem una lucida riflessione sui casi di Firenze e Torino
Attenzione, ora, a sottovalutare i casi della sedicenne che indica i rom come stupratori per essere più credibile nella propria versione, del ragioniere vicino a Casa Pound che spara sulla folla mirando agli immigrati, dei camerati di Militia che vengono arrestati a Roma, dell’insegnante di Caserta che davanti a due compiti uguali a uno mette 9 e all’altro 7 perché, spiega all’alunna, «tu non sei come gli altri, tu sei nera».
Attenzione, perché sono storie già viste, sentite e passate nel dimenticatoio generale… ricordiamo il caso di Ponticelli? Con una ragazza che accusa una rom di aver tentato di rapire una neonata e il conseguente raid nel campo nomadi? Ricordiamo l’accusa della ragazzina di Novi Ligure prima di essere scoperta? Su chi cadono i primi sospetti della strage di Erba?
Ora sui giornali si riparla di “razzismo istituzionale”, dimenticando la responsabilità dei media nel veicolare, titolare, riportare notizie che hanno, realmente o presumibilmente, come soggetto un immigrato. Ma vogliamo ricordare il titolo della Stampa di qualche giorno fa, sul caso del finto stupro? Vogliamo andare a guardare, ieri e oggi, quanti giornalisti scrivono “vu’ cumprà”? Vogliamo mettere in risalto il fatto che i primi lanci di agenzia riportano il nome dell’assassino di Firenze e dei morti dicono “senegalesi”… senza nome?
Ora il sindaco di Firenze parla della città come una realtà aperta che condanna il killer razzista, ma abbiamo dimenticato che qualche anno fa fu un assessore fiorentino (di sinistra, perché poi le colpe di questo clima sono trasversali) a dichiarare guerra ai lavavetri con un’ordinanza? Vogliamo scordarci la proposta della patente a punti da parte dell’ex-primo cittadino di Roma o la caccia agli immigrati che vendono borse contraffatte voluta dal sindaco di Verona, cui poco importa chi distribuisca loro la merce, chi incrementa il mercato dei falsi, l’importante è che non le vendano per le strade?
Di cosa stiamo parlando allora? Di chi per anni ha adoperato un linguaggio razzista, fomentando una campagna di odio e paura per fini elettorali o di chi, utilizzando termini fintamente “puliti” e corretti, non si è distinto nelle metodologie, ha cavalcato un sentimento che non si poteva contrastare apertamente, per non rischiare la perdita di voti? Di entrambi, senza dimenticare nessuno. Perché non si continui, ad esempio, a parlare della legge Bossi Fini dimenticando il varco aperto dalla Turco Napolitano.
E allora è tempo di dire “basta”, di riconoscere le responsabilità di tutti e di iniziare a chiamare le cose per nome: il razzismo è razzismo, non è la follia di uno, non è la paranoia di un’adolescente non più vergine… è un atteggiamento diffuso che aleggia tra noi pericolosamente, che ci invade anche quando pensiamo di essere migliori degli altri, di esserne privi.
Ripartiamo dalle parole di Pape Diaw (nella foto), portavoce della comunità senegalese, dalla sua grande dignità davanti al dolore, dalla forza delle sue parole di denuncia. Corrette, ferme, senza sbavature di una facile intolleranza. Ripartiamo da qua, dalla condanna ferma e consapevole di un clima che ci circonda, che si inasprisce con la crisi, che si insinua nei luoghi più bui di noi, dove ci sentiamo meno sicuri e dove abbiamo tanto da lavorare per trovare il coraggio di nominare le cose con i termini corretti. Anche quando riguardano noi, il nostro modo di vedere e pensare. Solo così, insieme, potremo affrontarle e sconfiggere.
Fonte:
http://www.combonifem.it/articolo.aspx?t=NL&a=4550