Economia: il passaggio dalla "società industriale" alla "società della conoscenza"
E’ del tutto evidente che per affrontare un argomento come quello dell’economia (e della crisi economica) non basterebbero decine di convegni. Ma noi non abbiamo tempo e, soprattutto chi sarà chiamato ad avere incarichi amministrativi in seno alla Regione, dovrà necessariamente rapportarsi con idee e proposte innovative a questi argomenti.
Grazie alla mia professione di ricercatore universitario (a contratto, ma da oltre dieci anni) e all’impegno politico-sociale che porto avanti da anni, sono riuscito a confrontarmi con personalità autorevoli del mondo economico, e non solo, raccogliendo spunti e utili suggerimenti. Le righe che seguiranno sono dunque la sintesi di un percorso umano, politico e scientifico che ho svolto in questi mesi, che forse potrà essere un contributo alla discussione e alle proposte programmatiche. Perché la natura, le dimensioni e gli effetti della crisi risultano da tempo evidenti. Nonostante le sconsiderate affermazioni di qualcuno, la crisi ha colpito e continuerà a colpire duramente il sistema produttivo e l’occupazione per tutto il 2010. I dati nazionali sono noti. Ecco perché occorre affrontare il problema con metodo e con scelte lungimiranti, senza fare finta che la crisi non esista e che non coinvolga il sistema Paese.
Se la società americana è perfettamente consapevole che il modello produttivo è cambiato – e dunque si investe in modo massiccio per rispondere a nuovi bisogni -, lo stesso non si può certo dire per l’Italia.
E’ necessario comprendere la natura strutturale del passaggio che abbiamo di fronte, da “società industriale” a “società della conoscenza”. Si tratta del passaggio da un “economia di prodotto” ad un “economia di sistema” nella quale conoscenza, competenza, innovazione, creatività assumono un rilievo inedito rispetto al passato e permeano tutti gli ambiti e i settori della società.
Occorre quindi migliorare le performance della rete delle infrastrutture materiali e immateriali della nostra società; promuovere e sostenere la nascita di nuove imprese nei settori emergenti, multimedia ICT, nanotecnologie e biotecnologie, materiale e tecnologie per l’ambiente. Per questo proponiamo di costruire un “brand” della regione Emilia-Romagna che faccia percepire immediatamente i vantaggi competitivi e la qualità sociale e ambientale del nostro territorio, in modo da fornire una immagine trainante della regione nella sua proiezione europeainternazionale.
Per fare un esempio: negli Stati Uniti hanno capito che l’allungamento della vita non mantiene le persone giovani più a lungo, come crediamo in Italia, dove un 35enne è considerato “un giovane”, l’allungamento rende vecchi più a lungo e come tale genera dei bisogni, a cui il mercato deve dare un risposta. Negli Usa, infatti, hanno iniziato ad investire pesantemente sulle biotecnologie, con l’obiettivo di qualificare la qualità della vita delle persone più anziane.
Se invece vogliamo guardare in ambito europeo, una soluzione interessante è fornita dalla Nokia: essa nasce come impresa che produce pneumatici e scarpe da ginnastica. Poi hanno fatto una scelta, erano forti in quel settore, hanno trovato similarità tecnologiche e saputo riallocare il capitale umano per generare la nuova forza produttiva che tutti conosciamo.
La sfida dunque non è la crisi economica, sono anni che il Paese non cresce. La crisi è solo, se me lo consentite, “l’ultima sberla”. La vera sfida è quella di offrire un progetto generale di Paese, di trasformazione produttiva del Paese.
L’Emilia-Romagna deve candidarsi ad essere il vero laboratorio italiano della green economy – sostengo questa tesi da ormai un decennio, sensibile alle intuizioni più feconde della nuova economia maturata a cavallo dell’anno duemila- e più in generale a guidare un cambiamento dell’economia che metta al centro l’ambiente non solo nel senso della tutela ma come motore di un nuovo sviluppo.e
Come ho abuto modo di illustrare di recente ad una serata di discussione su queste tematiche, alla presenza del mio concittadino e amico Prof. Vincenzo Balzani, da prime rilevazioni eseguite sul territorio regionale risultano oltre 700 imprese (per circa 27.000 addetti e 5 mld di € di fatturato) che svolgono principalmente la loro attività nel green business, mentre vi sono circa 1100 imprese, pari a 77.000 addetti e 28 mld di € di fatturato, che svolgono solo parzialmente la loro attività in mercati green. In totale, quindi, vi sono complessivamente circa 1800 imprese, principalmente “industriali”, che sono state coinvolte in business verdi, pari ad oltre 103.000 addetti ed un fatturato complessivo stimato di 33 mld di €. A queste vanno almeno aggiunte oltre 2800 imprese “agricole/biologiche” e forestali, circa 3.400 professionisti e un centinaio di società abilitati alla certificazione energetica. Attorno a questi numeri c’è un sistema regione molto attento alle variabili ambientali costituito da oltre 650 imprese che hanno una certificazione ambientale di processo (corrispondente ad un numero di siti produttivi pari a 1.221), affiancate da oltre 100 strutture ricettive con certificazione di Legambiente.
Il sistema regionale è costituito, inoltre, da una componente strategica dedicata alla ricerca collegata ai 6 Tecnopoli con specializzazione ambientale ed energetica.
In base alle stime effettuate dalla Fondazione Sviluppo Sostenibile, è ragionevole ritenere che la green economy intesa in senso largo, comprendendo le ricadute dirette e quelle sull’indotto, offra un potenziale di nuovi posti di lavoro che si aggira intorno ai 65-80.000 in cinque anni, ovvero circa 13.000-16.000 all’anno; posti che è auspicabile che la Regione, ovviamente negli ambiti delle sue competenze e disponibilità finanziarie, possa contribuire ad attivare nei prossimi cinque anni di mandato.
La “Green economy” è costituita da un mix di politiche pubbliche volte a orientare la domanda verso la sostenibilità ma anche a creare un nuovo orizzonte di convenienze per il mercato, coinvolgendo a pieno il mondo produttivo e tutti i soggetti protagonisti delle filiere. Energia, trasporti, edilizia, gestione dei rifiuti, valorizzazione delle produzioni tipiche, impiantistica, sviluppo e applicazioni delle “produzioni pulite” sono solo alcuni dei principali campi su cui focalizzare i futuri sforzi di crescita dell’economia regionale e territoriale, in termini di internazionalizzazione, creazione di nicchie di mercato e crescita occupazionale.
E’ necessario quindi imporre un’accelerazione e una forte innovazione dei processi partendo da alcuni strumenti che già la Regione ha attivato per poi introdurne altri al fine di tenere insieme sapere, conoscenza, innovazione tecnologica e ricerca.
Va in questa direzione la nuova grande Rete per l’Alta Tecnologia costituita dai Tecnopoli, un progetto che mette in campo – come è noto – un intervento di 234 milioni di investimento. Esso prevede 10 tecnopoli sul territorio regionale con 46 laboratori e 7 centri per l’innovazione insediati a regime per circa 1.800 ricercatori impegnati, dei quali 520 saranno nuovi giovani ricercatori.
Il lavoro dei Tecnopoli, anche alla luce della situazione di crisi che stiamo attraversando, rappresenta pertanto la scelta strategica per far fare un vero salto di qualità nella nuova economia alla manifattura, all’agroalimentare e più in generale, allo sviluppo della nostra regione, creando le condizioni per costruire soluzioni industriali alternative.
Occorre inoltre sostenere le nostre imprese nei loro processi di internazionalizzazione. In una realtà come quella emiliano-romagnola, caratterizzata anche dalla presenza di tantissime piccole e medie imprese, è fondamentale sostenerle nella penetrazione dei mercati internazionali, a maggior ragione in questa fase in cui la ripresa economica sembra concentrarsi nei paesi asiatici e sudamericani, che per loro caratteristiche intrinseche sono più difficilmente aggredibili rispetto al mercato europeo, che ha sempre rappresentato il tradizionale sbocco per le nostre imprese.
E’ necessario inoltre rendere più competitivo e appetibile il nostro modello, in modo da attrarre investimenti di capitali dall’estero, ancora troppo bassi nel nostro Paese, che paga – come rilevano anche autorevoli studi – un problema storico di sottocapitalizzazione delle proprie imprese.
La Regione Emilia-Romagna ha stanziato nell’ultimo anno 50 milioni di euro che – assieme a una cifra analoga messa a disposizione dai consorzi fidi – ha permesso di dare vita a un fondo che mobiliterà la disponibilità di un volume di credito di circa un miliardo e mezzo di euro.
La promozione e la qualificazione dell’occupazione, anche nelle forme del lavoro autonomo, associato o di soluzioni autoimprenditoriali, costituiscono un obiettivo cardine del nostro programma di centrosinistra. Così come sviluppo economico, competitività e coesione sociale sono strettamente interdipendenti con la possibilità per le persone di vedere, progettare e costruire il proprio futuro. A ciò concorre in misura decisiva l’acquisizione di condizioni lavorative stabili e – cosa che ritengo assolutamente prioritaria – una strenua lotta al precariato.
La promozione di una migliore qualità del lavoro, la regolarità e la sicurezza del lavoro stesso devono essere gli assi portanti delle politiche del lavoro della Regione.
Tutto ciò si deve inserire in un contesto nazionale che definisca un sistema “completo” di ammortizzatori sociali, e per questo occorre davvero che in campo nazionale vengano poste in essere riforme sempre più urgenti.
Credo inoltre che gli interventi di incentivazione e di valorizzazione debbano essere volti alle imprese che mettono in campo misure finalizzate alla promozione delle condizioni di sicurezza, regolarità e qualità del lavoro.
Vanno inoltre promosse e sostenute azioni di formazione, ricerca, individuazione e diffusione di buone prassi, azioni di monitoraggio degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali.
Dovranno essere qualificati i servizi per l’impiego, sviluppando politiche per la protezione delle fasce deboli del mercato del lavoro, in particolare combattendo il lavoro nero.
È necessario, inoltre, affrontare il tema del ricambio generazionale nel sistema delle imprese, strategico per garantire qualità e competitività al sistema economico.
Il mio impegno è quello di rafforzare un sistema a rete, lavorando perché soprattutto le piccole imprese si mettano insieme per obiettivi specifici di rafforzamento competitivo: ricerca e innovazione tecnologica, organizzazione e qualità, logistica, commercializzazione, export. Facendo leva sulle eccellenze produttive dell’Emilia-Romagna, dall’industria all’artigianato, dalla piccola e media impresa a quella più grande al sistema della cooperazione.
La ricerca e l’innovazione si confermano terreni di impegno prioritario, ma dobbiamo rendere questo obiettivo sinergico alla gestione della crisi e al rischio di riduzione della base produttiva e occupazionale.
Così come è stata costruita una grande rete pubblica in fibra ottica che consente di distribuire servizi innovativi e interattivi a cittadini e imprese, il prossimo obiettivo sarà colmare il digital divide, ovvero il divario esistente tra chi può accedere alle nuove tecnologie e chi no, che è l’8,6% della popolazione.
Oltre alle “autostrade digitali”, serve puntare a una “buona mobilità”, a una mobilità sempre più sostenibile. E quindi la Regione dovrà puntare sulla crescita del 10% dei passeggeri del trasporto pubblico locale, del trasporto ferroviario (+ 100%), sulla promozione di veicoli elettrici (e relative infrastrutture necessarie) e sull’incremento (al 15%) della mobilità ciclabile. Il tutto in un’ottica di interconnessione modale e integrazione tariffaria.
Condivido in pieno l’obiettivo, che poi è quello del Partito Democratico, di riportare 3 milioni di tonnellate all’anno di merci su ferro in Emilia-Romagna.
A questo scopo la Regione stanzia in totale 9 milioni di euro di contributi su tre anni, a partire dal 2010. È il nostro modo di realizzare quella che abbiamo chiamato “cura del ferro”.
Per quanto riguarda lo sviluppo dei sistemi regionali fieristici ed aeroportuali, la Regione intende continuare un lavoro tenace volto a creare le connessioni di sistema che consentano a queste realtà di presentarsi, con la forza che meritano, al panorama nazionale ed europeo. Lo sforzo sarà quindi quello di razionalizzare ed integrare le realtà presenti in regione secondo vocazioni e in un’ottica sistemica.
Per concludere, ma non certo ultimo argomento in ordine di importanza, il federalismo fiscale deve essere la chiave di una complessiva riforma fiscale per rendere più equo il prelievo sul lavoro e le imprese (intervenendo su IRAP e IRPEF) e contrastando strutturalmente l’evasione fiscale.
Diversamente, diventerebbe difficile mettere in campo una vera e propria politica fiscale e finanziaria se le decisioni sulle principali entrate e uscite delle Regioni dovessero rimanere, di fatto, in capo al Governo centrale.
Insomma, un salto di qualità, un salto nel futuro, è necessario: si tratta di una nostra scelta e dobbiamo percorrerla. Se ce l’hanno fatto in Finlandia dobbiamo farcela anche noi.
di Thomas Casadei
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