Egitto, rivoluzione web la folla festeggia il trionfo
Mubarak abbandona la capitale per Sharm el Sheikh. L’uomo d’affari Sawiris farà da mediatore tra militari e opposizionedi BERNARDO VALLI
IL CAIRO – Bisogna darle un nome, e non la si può chiamare che la "rivoluzione del web", perché è stata la generazione dei blog, di Facebook, di Twitter, ad accendere la scintilla della protesta e quindi a scalzare il raìs, al potere da trent’anni in una terra con un antico culto dei potenti.
Pochi minuti dopo le sei del pomeriggio, quando era già buio sulle due sponde del Nilo, e il Cairo era sommerso da una folla mai vista nei diciotto giorni di rivolta, l’ex tenente generale Omar Suleiman, da poco nominato vice presidente, è comparso sui televisori e in due frasi ha annunciato che Hosni Mubarak aveva infine rassegnato le dimissioni. Nel frattempo si era sparsa la notizia che il raìs se ne era già andato dal Cairo, con la famiglia, per raggiungere la residenza estiva di Sharm el Sheikh, sul Mar Rosso egiziano. Quale sarà il suo immediato destino resta incerto. La Germania potrebbe essere la prossima meta. Là è da tempo in cura per i suoi vari malanni.
Suleiman, l’uomo dei servizi segreti, campione dello spionaggio, delle trame e delle repressioni, ha dichiarato, con un’espressione trasudante collera, la resa del suo capo. La faccia scavata, slavata, e gli occhi socchiusi, dicevano più delle parole. Del resto le parole annuncianti la disfatta del regime, Suleiman non le ha rivolte ma le ha gettate in faccia ai milioni di egiziani impegnati notte e giorno, da tre settimane, a gridare sulle piazze, con tenacia e semplicità, la voglia di democrazia, e l’"hogra", la vergogna per dover vivere senza tante libertà elementari. Alla piazza che l’ha umiliato, Suleiman non è riuscito a dedicare più di due frasi. Eppure l’annuncio era storico.
Pagando con trecento morti la loro sfida, senza sparare un colpo di fucile, senza violenza, i ragazzi del web hanno trascinato con sé un paese di ottanta, cento milioni di abitanti. Hanno costretto l’esercito prima a rispettarli e poi a seguirli, e hanno sconfitto, con la semplicità e la chiarezza della loro protesta, il potere occulto incarnato da Suleiman. Soprattutto hanno cacciato il raìs detestato e corrotto, che con la sua famiglia ha accumulato un patrimonio di sessanta miliardi di dollari, un sesto del reddito nazionale, in una società dove quattro famiglie su dieci vivono sotto il livello di sussistenza. In questo raro momento, le verità non hanno veli, sono crudeli, e la generosità, dovuta ai vinti, è maledettamente avara. Dopo la piccola Tunisia, il grande Egitto è un esempio, una tentazione per tutto il mondo arabo, dove si è aperta una grande breccia per la democrazia.
Spetta all’esercito, che assume il potere, tenerla aperta. Non è chiaro se l’impopolare Omar Suleiman occuperà come vice presidente, formalmente e in via provvisoria, la carica di Mubarak. Non è comunque lui che favorirà l’avvento della nuova libertà sulle sponde del Nilo. Chi comanda da ieri in Egitto, ufficialmente e di fatto, è l’Alto Consiglio delle forze armate. Un organismo che si riunisce di rado, in caso di guerra, e che funzionerà come una giunta militare. Un uomo d’affari rispettato, Naguib Sawiris, farà da mediatore tra i militari e i movimenti d’opposizione, che non hanno ancora un capo, né un organismo che li rappresenti nel loro insieme.
In sostanza è avvenuto un colpo di Stato. Un putsch liberatorio. L’esercito controlla, gestisce la "rivoluzione del web", che non ha promosso, anzi l’ha colto di sorpresa, come il resto del regime. La folla riconoscente abbraccia adesso i soldati, sommerge carri armati e autoblindo con un entusiasmo senza riserve. Si vedrà poi se i generali dell’Alto Consiglio delle forze armate manterranno le promesse ed esaudiranno le aspirazioni della gente di piazza Tahrir. Se riusciranno a disegnare una democrazia accettabile o slitteranno in un nuovo autoritarismo. Alla testa dell’Alto consiglio delle Forze armate c’è il feldmaresciallo Mohamed Tantawi, fino a ieri ministro della difesa e ufficiale distintosi nella quarta guerra contro Israele, quella del Kippur, nel 1973.
Tantawi appare adesso come il personaggio più autorevole. Egli non è considerato un uomo incline alle riforme democratiche, ma si dice abbia avuto un ruolo determinante nelle ultime ore, dopo la caotica giornata di giovedì, quando Hosni Mubarak pronunciò alla televisione il discorso con il quale chiarì con arroganza di non avere alcuna intenzione di dimettersi. E dette l’impressione di avere alle sue spalle l’esercito. In realtà le forze armate erano divise. La Guardia repubblicana, o presidenziale, forte di undicimila uomini, restava fedele alla sua missione. E uguale attaccamento al raìs aveva l’aviazione, nella quale Mubarak ha vissuto tutta la carriera militare. Non a caso nei primi giorni della protesta aerei militari hanno sorvolato a bassa quota le manifestazioni, a scopo intimidatorio, ma in verità con scarso risultato. L’esercito, con più di trecentomila uomini, in larga parte provenienti dalle classi popolari, era il più sensibile ai richiami dell’opposizione arroccata in piazza Tahrir.
Ma è tra gli ufficiali che sono affiorate le divisioni. Spesso generazionali. I capitani, i maggiori, i colonnelli erano colpiti e frustrati dalle rivelazioni sulla corruzione nel regime, e in particolare nel Partito Nazional Democratico, di fatto il partito unico, diretto dal figlio di Mubarak. L’enorme patrimonio della famiglia presidenziale, in larga parte piazzato all’estero, non aumentava certo il prestigio del raìs presso i militari. Compresi alcuni generali a contatto con gli ufficiali subalterni, e non viziati dalle cariche nell’industria di Stato elargite dal presidente ai soldati fedeli alla sua persona e al suo clan. Inoltre l’esercito aveva escluso, fin dall’inizio della sollevazione popolare, di partecipare a un’eventuale repressione. I soldati non avrebbero tirato sulla folla. I figli di operai non avrebbero sparato sugli operai; e così i figli dei contadini sui contadini; ma neanche gli ufficiali avrebbero ordinato di sparare sugli avvocati, sui medici, sugli ingegneri, sui giudici unitisi alla protesta. E si sapeva che gli americani, fornitori di dollari e di armi, avevano minacciato di sospendere gli aiuti nel caso ciò dovesse accadere.
I generali dell’Alto Consiglio erano a loro volta divisi sulla sorte da riservare al presidente. Alcuni ritenevano di non dover ferire la casta militare obbligando alle dimissioni il raìs, comandante supremo delle forze armate. Ma più la protesta cresceva, e si moltiplicavano gli scioperi nel paese, e si infittivano le notizie sulla corruzione, più cresceva il numero dei generali decisi a cacciare Mubarak. Le divisioni, gli scontri tra i pro e i contro le dimissioni del raìs si sono protratti fino a ieri mattina. La sostanza del secondo comunicato emesso dall’Alto Consiglio era ancora favorevole a Mubarak. Pur approvando il parziale passaggio dei poteri a Omar Suleiman, i generali precisavano comunque che la supervisione del potere spettava al Consiglio. Era un primo decisivo passo.
Il feldmaresciallo Tantawi, pur non essendo un fervente democratico, anzi pur non nascondendo le idee conservatrici, avrebbe fatto pendere la bilancia in favore di un’estromissione definitiva del raìs. La corruzione della famiglia presidenziale era insopportabile; e la grande manifestazione che si stava estendendo a tutta la capitale, da Heliopolis, dove si trova il palazzo presidenziale, all’edificio della televisione, sulla riva del Nilo, rivelava l’impossibilità di mantenere Mubarak al suo posto. Le telefonate sempre più insistenti, in favore di una transizione rapida, del collega americano, il segretario alla difesa Gates, hanno contribuito a convincere Tantawi. E cosi l’ormai ex raìs è stato costretto a rimangiarsi il discorso della sera prima, è stato costretto a fare le valige e a partire per Sharm el Sheikh. Omar Suleiman ha annunciato le dimissioni del suo capo a denti stretti, regalando all’Egitto momenti di orgoglio e felicità.