“I figli d’Italia e le colpe dei padri” di Danilo Breschi
“Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. Questa frase è stata una delle tracce della prima prova dell’esame di maturità 2012. Le parole sono dello scrittore francese Paul Nizan, amico di Sartre e Aron. Con queste parole si apriva la sua opera prima, Aden Arabia, pubblicata nel 1931. Gli fa oggi eco la premiata ditta Franco Battiato-Manlio Sgalambro, che nel nuovo disco, freschissimo di uscita, cantano Viva la gioventù, che fortunatamente passa. Insomma, da sempre letteratura e musica sanno bene quanto duro sia essere giovani. Se poi si è nati in Italia e si è giovani in questi ultimi anni, di sicuro arriva qualcuno dal governo, appannaggio degli adulti, che ti bacchetta e ti rimprovera come forse nemmeno più i padri e le madri fanno in casa con i propri figli. Cambiano legislature e governi, ma la musica è la stessa.
Ed ecco così che nel 2007 l’allora ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa dichiara: “mandiamo i bamboccioni fuori di casa”. Nel 2010, l’allora ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta rincara la dose: “obbligherei per legge i figli a uscire di casa a 18 anni”. Nel gennaio di quest’anno, poi, Michel Martone, viceministro del Lavoro, alza ancor di più i toni: “se non sei laureato a 28 anni sei uno sfigato”. È di pochi giorni fa l’ultima rimproverata ministeriale, con Elsa Fornero, ministro del Lavoro, che utilizzando un termine inglese ha bollato i giovani come “schizzinosi”: “I giovani escono dalla scuola e devono trovare un’occupazione. Però, non devono essere troppo choosy. Non si può più aspettare il posto ideale”.
Se non siamo un Paese di choosy, resta però il fatto che siamo quello dei “neet”, dei giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano. Se in Europa sono 14 milioni, in Italia sono ben 2 milioni. Ovvero siamo sul podio, medaglia di bronzo dietro Bulgaria e Grecia. Sono dati che provengono dal centro di ricerca Eurofund. Il dato ancora più sconfortante è che di quei 2 milioni solo il 34% risulta disoccupato alla ricerca di lavoro, gli altri sono inattivi, vi hanno rinunciato.
I dati relativi alla valutazione delle competenze conoscitive acquisite dai nostri studenti delle scuole medie superiori, se comparati con gli altri Paesi europei, come fa l’indagine OCSE relativa al cosiddetto progetto PISA, aiutano solo in parte la gioventù italiana a controbattere i rimproveri paternalistici dei ministri. Su alcune materie, le prove del PISA hanno rilevato in questi anni che i nostri ragazzi sono sotto la media OCSE. Molto deludenti, ad esempio, i risultati delle prove di matematica del 2003. E già qui occorre osservare che la qualità nell’apprendimento è sempre connessa alla qualità dell’insegnamento.
Questi dati vanno presi con beneficio d’inventario, è ovvio. Una regola di prudenza vale per qualsiasi ricognizione statistica, ma non possiamo certo ignorare dati come questi, elaborati e diffusi da enti di ricerca accreditati a livello internazionale. La classe politica, per la potestà legislativa che le compete, e la classe dirigente tout court, per il ruolo decisionale e le possibilità di assunzione e investimento che ha, deve tener conto di questi dati, preoccuparsene seriamente e agire di conseguenza, da qui al medio-lungo periodo. Questo è compito di ciò che è degno di chiamarsi “politica”, di ciò che merita il nome di leadership.
Detto ciò, sono dell’avviso che, almeno una volta su tre, dietro un giovane che non ha né entusiasmo né ideali, o almeno sogni e speranze, ci sia un adulto che non ha saputo trasmetterglieli, perché magari non ne ha mai avuti nemmeno lui, di sogni e speranze, o perché non sa come si fa, ed è incapace di sintonizzarsi con una gioventù che corre veloce, e si trasforma al ritmo dell’high tech.
Mi viene in mente quella stupenda canzone di Cat Stevens, annata 1970, intitolata Father and Son, celeberrima anche alle generazioni più recenti. Ancora alla fine degli anni Ottanta mi veniva insegnata in classe durante la lezione di inglese. È poi tornata in auge grazie ad alcuni spot pubblicitari che se ne sono avvalsi come sfondo musicale. Ebbene, lì si narra un’antica dialettica esistenziale, quella che vede, da una parte, un padre che ha esperienza, saggezza e insegnamenti da trasmettere, e persino una certa serena fiducia nella vita e nel futuro, suo ed altrui, perché ha ben digerito ed elaborato il proprio passato, e dall’altra un ragazzo che scalpita, che si sente mancare il respiro, avverte un’ansia che lo divora, e deve perciò assecondare queste “cose che conosce” e avverte dentro sé. Non riesce a spiegare il perché di questa decisione di partire, e lasciare il genitore che invecchia e che gli chiede solo di pazientare e prova a rassicurarlo che tutto si sistema col tempo, ma qualcosa urge dentro al petto del giovane. Non sa spiegare quel che gli brucia dentro, ma sa che deve fare ciò che sente. È la natura che così impone, e natura è necessità, come già i Greci sapevano. E il tempo non è variabile contemplata dal giovane. Al più, scorre come un conto alla rovescia. E quindi bisogna correre. Ma questa dialettica e queste pulsioni parrebbero essersi un poco perdute ultimamente. O almeno questa è la percezione che se ne ha, e che i media contribuiscono a diffondere. Forse è una percezione sbagliata, in tutto o in parte.
Forse il problema è che il contesto storico e sociale è talmente cambiato che non possiamo certo misurare la presenza e l’impegno dei giovani nella società odierna dal numero di occupazioni delle scuole e manifestazioni in piazza, con bandiere e cartelli, magari anche scoppi e botte, che si possono registrare in un anno. Non basta questo a segnalarci che una gioventù è viva. Qualcosa resta, ma qualcos’altro, e forse il più, è cambiato nelle mature, talora stantie, democrazie liberali europee.
Molti, compresi diversi giovani e i loro difensori d’ufficio, dicono che questa eventuale apatia è dovuta alla crisi economica, all’assenza di possibilità concrete messe a disposizione delle nuove generazioni. Non so quanto sia valido un simile argomento. Anche perché mi chiedo se il “son”, il figlio della canzone di Stevens, si sarebbe fermato di fronte alla mancanza di sicurezze materiali, garantite nel tempo. È una questione esistenziale, non materiale.
Certo è che ci sono paesi per vecchi e paesi per giovani, ovvero società statiche e chiuse e società dinamiche e aperte. Questo dipende molto dagli adulti, dalle regole del gioco che essi hanno messo in campo. Dipende dal modo in cui questo campo è stato costruito, e dipende dai tempi e dalle modalità di accesso ad esso. Fuor di metafora, una gerontocrazia consolidata nel tempo e nello spazio finisce per lasciare esausti tutti i suoi oppositori. E dopo Tienanmen, nonostante Tienanmen, la grande piena rifluisce nel placido alveo del fiume. E, per limitarci ai più miti e assai meno coattivi e cruenti contesti democratici occidentali, il conformismo vince sulla eccentricità, la routine sulla creatività.
“Le colpe dei padri ricadono sui figli”, questo ci insegna la tragedia greca. Credo che una tale sentenza si adatti a spiegare quel che sta accadendo nella società italiana, e non solo a livello collettivo. Sono convinto che ogni giovane, ogni ragazza o ragazzo, sia tutto o niente in quell’età indefinita, anche perché potenzialmente infinita, mentalmente infinita nelle sue proiezioni sul domani, che è l’adolescenza. Di qui, anche, il carattere terribile e pesante dei vent’anni non rimpianti da Nizan. Difficile afferrarli per un teenager, perché difficile è capirli all’esordio di una vita autocosciente, ancora tutta da sperimentare. Secondo uno dei padri del Romanticismo, il drammaturgo, poeta e storico Friedrich Schiller, è lo spirito di sfida che dà luogo alla tragedia, perché crea un conflitto, fa ingaggiare all’essere umano un corpo a corpo contro qualsiasi forza, anche incomparabilmente più grande. La probabilità di una sconfitta non spaventa l’eroe tragico, che, anzi, quasi cerca la sfida impossibile, ma perciò esaltante e nobilitante. C’è indubbiamente molto spirito romantico nell’aria che si trovano improvvisamente a respirare un ragazzo o una ragazza da poco usciti dall’infanzia. Un’aria di sfida, che però va saputa indicare, circoscrivere, insegnando il modo in cui respirarla.
Alcuni dicono che i giovani devono scontrarsi con gli adulti. È quasi una tappa obbligata nella sana evoluzione di un individuo. Non contesto questo punto, ma mi chiedo se non siano pure importanti gli esempi, in questa età. I miei diciott’anni furono segnati anche dalla visione del film con Robin Williams, L’attimo fuggente, traduzione italiana di Dead Poets Society, regia di Peter Weir. Al netto della retorica che connota quel film, e che colgo più oggi di ieri, c’è però un messaggio importante che passa, e che proprio oggi appare persino più importante, in quest’epoca spenta e fredda. Il messaggio che a me giunse è questo: tra letteratura e vita, tra insegnamento e vita, tra educazione e vita, non c’è alcuna distanza, alcuna differenza, ma l’uno è canale di accesso all’altra, è quel che può destare la tua coscienza e illuminare il tuo cuore, per farti leggere dentro quel che ti pulsa, al di là della fisiologica tempesta ormonale.
La scuola può dotare lo studente di molti più strumenti di quel che si è soliti pensare. E non mi riferisco certo ad aule o attrezzature più moderne. Ciò a cui mi riferisco è sintetizzato alla perfezione dalla pubblicità promossa dal Ministero dell’Istruzione e che si avvale della voce e delle parole di Roberto Vecchioni. Parole sagge che invito ad ascoltare. E poco importa se le strutture utilizzate nello spot appartengono ad un istituto privato e non pubblico, tedesco (ma con sede a Milano) e non italiano. Polemiche puerili, in questo caso. Il messaggio è chiaro e universale: “studiare significa amare, e cioè dare un senso alla nostra vita e a quella degli altri”, e perciò “non smettiamo mai di amarla, la nostra scuola”.
La scuola, dunque, e la famiglia, ovviamente. Questa svolge una funzione analoga, per molti aspetti assai più determinante, fors’anche decisiva in certi casi, ma credo sia più efficace se interviene prima e dopo l’adolescenza, ovvero la fase in cui è inevitabile un certo distacco da quel gruppo primario che è la famiglia per andare in cerca di gruppi secondari, quali sono i coetanei anzitutto.
E allora, se qualcosa non va nei giovani di oggi, interroghiamoci prima di tutto noi adulti. Chiediamoci quali esempi abbiamo dato loro in questi anni, quanto entusiasmo abbiamo incarnato anzitutto noi, nelle nostre professioni, nei nostri affetti famigliari, nelle nostre vite quotidiane, e quanto entusiasmo e forza interiore abbiamo cercato di trasmettere, nonostante le nostre beghe, le nostre preoccupazioni, le nostre paure altrettanto quotidiane. Il protagonista dell’Attimo fuggente è un professore che esorta, che affascina e seduce, ma non per condurre a sé i suoi giovani allievi e confermare se stesso, il proprio ego e la propria bravura di uomo adulto e saggio, semmai per condurli fuori dalla caverna platonica, ricettacolo di conformismi e falsi dèi. Entusiasmo vuol dire avere il dio dentro. Ogni adulto, insegnante o no che sia, dovrebbe aiutare ogni giovane a scoprire il proprio personale dio che ha dentro, a coltivarlo, a farlo parlare perché maturi. Difficile trovare entusiasmo nei giovani se non c’è adulto che sa entusiasmare. Bamboccione genera bamboccione.