I precari dell’editoria ora si contano
A Milano questo pomeriggio c’è stata la quarta assemblea nazionale dei redattori precari (ReRePre). L’industria culturale italiana in questi anni ha usato e approfittato della crisi per ristrutturare molti settori al suo interno.
Le trasformazioni che hanno colpito molti lavoratori hanno creato, e continuano a creare, una generazione di precari il cui futuro è sempre più appeso alla chiamata di un capo redattore, alla benevolenza di un editor, oppure agli umori di editori sempre più ossessionati dal mercato e dalla competitività. Il capitale umano (i lavoratori della conoscenza) è stato la vittima sacrificale di questo processo. Due partecipanti all’assemblea facenti parte del nodo di Bologna (che preferiscono rimanere anonimi), raccontano a Pubblico come è andata:
Chi ha partecipato?
In maggioranza precari che lavorano nelle case editrici italiane, nei service editoriali, negli studi grafici. Più o meno 60 persone rappresentative dei nodi di Milano e Bologna.
E Roma?
A Roma abbiamo più difficoltà a coinvolgere le persone che hanno mostrato interesse all’iniziativa.
Come vi state muovendo?
Stiamo costruendo una rete in grado di monitorare tutte le situazioni di precarietà esistenti. Stiamo facendo una mappatura per capire quanti precari ci sono nell’editoria di oggi. Abbiamo fatto un questionario, a cui hanno risposto moltissime persone, che ci aiuterà a capire meglio la situazione. Tra meno di un mese avremo i risultati.
Qualcuno dei sindacati vi ha contattato?
La rappresentanza dei precari è complicata. O sei dipendente e usufruisci delle tutele previste da contratto oppure non esisti. C’è un vuoto legislativo tremendo. A Bologna, la sezione provinciale della CGIL ha commissionato all’Ires uno studio del problema.
I lavoratori della conoscenza sembrano essere tra le categorie più penalizzate perché sotto le mentite spoglie di un lavoro culturale avvincente e di squadra si annidano i ricatti peggiori da parte degli editori. E ho l’impressione che la situazione si stia aggravando. È vera questa sensazione?
Sta aumentando il numero delle persone esternalizzate. I contratti scadono sempre più in basso. Oggi persino il contratto a progetto è un miraggio. Le forme più diffuse sono la partita Iva, lo stage e il diritto d’autore.
Che obiettivi vi siete dati?
Gli obiettivi sono: il questionario da usare come strumento di visibilità e come strumento di contrattazione e un’autocoscienza sempre maggiore per poter affrontare i problemi in maniera più efficace possibile.
L’ultima domanda è cattiva. Avere queste forme di precarietà becere nell’editoria (costituita in maggioranza di persone che si definiscono di sinistra) non segna la sconfitta di una certa idea di lavoro e di società di cui tanti si sono riempiti la bocca? Non è un fallimento di un’epoca e di una cultura che ha preferito adottare le stesse leggi della destra? In fondo non è stata altro che una politica spregiudicata condita soltanto da un formalismo progressista?
Questo, forse, è il fallimento più grande. Preferiamo non aggiungere altro.