L’imbarazzo delle mezzeseghe
Negli anni ottanta, in uno dei primi numeri di «Linea d’ombra» mensile, scrissi un editoriale che intitolai provocatoriamente e in modo volutamente volgare Le mezzeseghe all’arrembaggio. Registravo un fenomeno: l’ascesa di un tipo intellettuale che si voleva molto moderno, e che di fatto non faceva che ribadire ed esaltare le linea del potere, il suo puntare sull’immagine e la festa, sulla consolazione piuttosto torbida degli italiani e anzitutto dei giovani tra consumismo e narcisismo. E chiacchiera. In un piccolo scontro con uno dei teorici al centro di quella tendenza – noto “intellettuale di sinistra” apprezzato dai due quotidiani e maestro di tanti – lo definii «un propagandista del capitale», ed egli mi rispose che a ben vedere in questa, che io consideravo un’accusa, c’era del vero. Più tardi, su una rivista che facevamo negli anni novanta, «La Terra vista dalla Luna», scrissi un intervento che intitolai, mi pare, Il trionfo delle mezzeseghe<. E più tardi ancora su «Lo straniero» uno che riprendeva il discorso nel cuore degli anni zero e che intitolai Le nuove Colonne della Società. Il trionfo è durato quasi trent’anni, ma sembra giunto alla fine, o a un punto di crisi e di svolta. (Oggi si sta assistendo a una ambigua rivalutazione degli anni ottanta, come se al tempo si fosse individuato il nuovo e moderno e poi gli anni novanta e zero l’avessero deviato; insomma, sul piano politico, a una sorta di difesa del decennio di Craxi contro il ventennio Berlusconi, mentre credo che occorra parlare di trentennio in modo decisamente unitario.)
La “saga delle mezzeseghe”continua, intanto, e la puntata attuale possiamo chiamarla Le mezzeseghe in imbarazzo, e non, come sarebbe più bello, La caduta delle mezzeseghe, perché non è prevedibile né che esse possano fare autocritica né che possano sparire miracolosamente dalla scena, insediate come sono nei gangli del sistema culturale, e cioè giornali e tv, università. Altre istituzioni e assessorati alla cultura. Ma certamente il loro dominio è in pericolo. Molti di loro sono pronti a riciclarsi, o hanno già cominciato a farlo – il trasformismo è una malattia tradizionale degli intellettuali italiani. E d’altronde nessuno ha intenzione di processarli, tanto meno i politici, molto più compromessi di loro nell’affermazione di un modello di società che ha infine mostrato la sua fragilità e la sua corruzione, e tanto meno quei pochi minoritari che in questi trent’anni hanno cercato affannosamente o confusamente di contrapporre alla loro onda un discorso critico o una presenza attiva “nel sociale”, occupati in altro di più serio e utile e gratificante. (Non parlo di quei pochi bravissimi rappresentanti di un pensiero ancora critico che si tirarono presto tirati da parte imitando un tizio di cui parla il Novellino, che si castrò per far dispetto alla moglie.)
D’altra parte, nell’editoria anche maggiore, trasformista per vocazione commerciale, spudoratamente fedele al primato del mercato ma col bisogno di darsi titoli di nobiltà chiamando la merce cultura, si assiste alla nascita di un nuovo filone, quello della critica al recente passato. Sono usciti o stanno uscendo molti libri di questo tipo, nei confronti dei quali è bene non affrettare il giudizio, perché insieme a cose serie ci sono già i prodotti dei “figli universitari del trentennio” che, con molta saccenza e con superficiale documentazione, accusano e disquisiscono. Nuove mezzeseghe del nuovo decennio? Staremo a vedere. Ma almeno un libro mi pare utile segnalarlo, L’egemonia sottoculturale di Massimiliano Panarari, appunto di una delle case editrici di cui sopra, l’Einaudi. Dell’autore so solo quel che ne dice il risvolto di copertina. Non convince sempre, ma è pieno di spunti e indicazioni molto utili. E di nomi. Se io non ne faccio, è perché sarebbero troppi, e spesso quelli più noti sono meno responsabili di altri nell’ombra. Nel ricordare il dominio culturale delle mezzeseghe di appena ieri, non mi attira l’idea di un processo al passato (“scagli la prima pietra…”) anche se è utile che ci sia qualcuno più bravo e nuovo di me a farlo; mi spinge invece la preoccupazione per un futuro che non si presenta facile da nessun punto di vista, tanto meno da quello della cultura che lo guiderà o ne nasconderà le nuove linee reali, sostanzialmente economiche. Mai come in questi anni passati la cultura è stata succube dell’economia e del potere – neanche sotto il fascismo! – e i servi, si sa, sono meno responsabili dei padroni.
Goffredo Fofi